Forse più dei versi di Pascoli e Leopardi o di film come «Don Camillo», capaci di ricordare quanto quel suono sia stato determinante per la vita quotidiana ancora oggi, forse più di essi valgono le parole di Lino Giuliani, che alla gagliarda età di 73 anni lavora la terra e suona le campane con la stessa
passione di quando a 17 anni si arrampicò per la prima volta sul campanile di Longara.
«Si sveglia la città con le campane», diceva una canzone, ed è vero, è tuttora così per me, anche se si suona di meno e i giovani tocca andarli a prendere. Si suonava quando nasceva un bimbo, quando moriva una persona… bisogna continuare questa tradizione che va avanti da oltre 500 anni e che rende il suono alla bolognese unico nel mondo. Da parte mia c’è tutta la volontà». Le parole di Lino rincuorano più di mille decreti, perché è sulla sua determinazione e di quelli come lui che poggia tuttora la secolare storia dell’Unione campanari bolognesi, l’associazione nata il 21 aprile 1912 grazie a 34 soci fondatori
che versarono 1 lira ciascuno per dare finalmente un’istituzione a quel modo di suonare le campane tipico di Bologna e dei suoi dintorni.
Una sequenza di rintocchi data da 4 campane (grossa, mezzana, mezzanella, piccola) codificata dai musicisti della cappella di San Petronio, perenni rivali della scuola musicale di Roma, dopo aver ascoltato il piccolo carillon di campane portato da Carlo V per la propria incoronazione sotto le Due Torri. Dal 1920 la sede dell’associazione è proprio sul campanile della Basilica di San Petronio, nella sala sottostante la cella campanaria. E da cui si perpetua questo patrimonio non solo storico, ma anche sonoro, un volto di quella metonimia che vede nei campanili identità e radici di quel Paese che è ed è stato l’Italia. Tra quei 34 sognatori c’erano il capo-torre di san Petronio e l’erede di una famosa fonderia attiva nel bolognese per oltre un secolo, la Brighenti. L’Unione campanari bolognesi oggi conta 300 iscritti, il più giovane non è neanche maggiorenne, e sono dipanati su un territorio che comprende tre diocesi: quelle di Bologna, Imola e Faenza, ma si arriva anche nel primo Ferrarese.
«Quello “alla bolognese”, che è la più antica codifica di suono, prevede che sul campanile salga una squadra di 4 persone e con la sola forza delle braccia sollevino e abbassino ciascuna la propria campana», spiega Mirko Rossi, attuale presidente dell’associazione. Le «partiture» sono sequenze in cui si alternano ritmicamente le 4 campane. La tecnica più vecchia è il «doppio a trave»: i campanari lanciano le campane, che si trovano già con la bocca rivolta verso l’alto, in modo che compiano una rotazione di 360 gradi; a quel punto le frenano e le rilanciano nella direzione opposta. Per ogni rotazione, il battaglio emette un unico rintocco. Negli intervalli tra un rintocco e l’altro di una singola campana, si inseriscono ordinatamente i rintocchi delle altre.
«Organizziamo gare per migliorarci e per affinare la tecnica, e poi in alcune sere facciamo scuole di avviamento o allenamenti, le braccia infatti devono essere forti e le squadre affiatate per mantenere la sincronia, non ci si può accordare verbalmente mentre le campane suonano». L’Unione si occupa pure della manutenzione delle torri campanarie e dei meccanismi, controlla e sostituisce ceppi di legno, bronzine e
cuscinetti a sfera. La vera custodia però l’ha operata nel 1990 anni fa monsignor Giacomo Stagni, quando con un bollettino inviato a tutti i parroci stabilì che le campane delle loro chiese non venissero sostituite da suoni riprodotti elettronicamente.
«Il 95 per cento dei campanili del territorio è rimasto intatto», aggiunge Rossi. Sono gli stessi prelati a chiedere di suonare alla bolognese per salutare cresime, comunioni, battesimi, «sarebbe bello sentire il suono delle campane, ci dicono», racconta ancora Lino. «Quando nasce un bambino si suona una campana piccola per avvisare i parrocchiani, quando scompare un prete 33 rintocchi, un vescovo 66, un papa 99. È impegnativo, due mesi fa ho suonato per un parroco e devi contare bene quando suoni».
Insomma a Bologna il «tempo del mercante» di Jacques Le Goff sembra essere ancora lontano.
Lino ha iniziato a 17 anni ed è arrivato a suonare con la sua squadra anche davanti a Romano Prodi premier in piazza Maggiore a Bologna.
«La prima volta è stato al convento di Longara, i miei fratelli suonavano lì e c’era la loro squadra.
I primi tempi ci voleva tanta buona volontà per inserirsi, i campanari più vecchi non ci guardavano ed eravamo noi giovani che dovevamo seguirli». Oggi per diventare un buon campanaro ci vogliono due anni, sostiene, e lui ha tirato su ben due squadre. «Ci sono campane che arrivano a 5 quintali, io qualche battuta con la testa che buttava sangue l’ho presa, ma uno a Monzuno una volta ha suonato da ubriaco si è ammazzato da solo con la stanga».
Nelle sue squadre ci sono giovani padri di famiglia e spesso Lino deve persuadere le mogli a lasciarli andare a suonare. Ma figurano persino giovani come Daniele Veronesi, 18 anni da un mese, il primo rintocco a 15 anni. Il papà ha smesso, ma lui ha raccolto il testimone. «Ne sentivo sempre parlare a casa e oggi con un amico, mio fratello e un altro ragazzo facciamo squadra — dice — all’inizio mi sembrava impossibile, ma poi abbiamo imparato a muoverci e a controllare le campane. Quel suono è parte
di me e di ogni cittadino».
Andrea Rinaldi